Oggi voglio condividere con voi questo breve estratto da “Sotto il cielo di Santiago”. Un passaggio in cui la protagonista trova finalmente il suo personalissimo modo di liberare ed elaborare il dolore.
Non voleva più precipitare nel buco nero. E, allora, ricordò le parole di Raúl quando le aveva parlato della “grande paura” e di quando, ogni tanto, ritornava. Si metteva a lavorare il legno, perché sentiva che gli faceva bene. E, poi, le venne in mente Isabel e il quadro dallo sfondo nero che le aveva mostrato. Aveva detto che guardare la sua paura l’aveva aiutata a superarla… Dipingere quel quadro l’aveva aiutata a tornare alla vita. E allora comprese, come un’improvvisa rivelazione, che in tutti quegli anni aveva smesso di dipingere perché le cose che avrebbe voluto ritrarre non le parlavano più, ma non aveva ascoltato la cosa che le urlava forte e potente nel petto, come un leone inferocito… Il suo dolore.
E il non averlo voluto ascoltare, il non aver voluto farlo parlare attraverso le sue mani, il suo lavoro, le sue tele, probabilmente, l’aveva reso più intollerabile.
Perciò, come una furia, tolse dal cavalletto il quadro che stava dipingendo e lo appoggiò a una parete. Poi, prese un’altra tela e cominciò a guardare nella sua cassettina i tubetti dei colori scuri… Terra di Cassel, terra d’ombra bruciata, grigio di Payne, nero d’avorio, nero di Marte… Li aveva usati così poco.
Che colore aveva il dolore? Qual era il colore predominante nella sua anima adesso? Gli occhi le si posarono sul blu oltremare scuro… Accarezzò con lo sguardo quel tubetto, come se volesse farselo amico, poi lo prese delicatamente fra le mani. Pensò a tutto il tempo che ci aveva messo per capire, ma forse era così che doveva andare. Cinque anni prima era troppo fragile per affrontare il dolore e raccontarlo. Tutto quel tempo, tutta quella pazienza, tutte quelle lotte con se stessa… Niente era stato inutile. Veramente adesso era più forte.
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