Massimo Arciresi è critico e giornalista cinematografico, conduttore su Radio Spazio Noi – In Blu, dal 1997, della rubrica settimanale “Uscita di Sicurezza”. Ha collaborato con i quotidiani “Il Mediterraneo” e “L’Ora”, ha diretto il quindicinale sul tempo libero “TrovaPalermo” e attualmente scrive per il mensile “L’Inchiesta”. Appassionato di fumetti e lingue straniere.
Cinquanta sfumature di rosso (Fifty Shades Freed, USA, 2018) di James Foley con Dakota Johnson, Jamie Dornan, Eloise Mumford, Rita Ora, Eric Johnson, Luke Grimes
Termina finalmente la patinata trilogia cinematografica tratta dai vendutissimi romanzi di E.L. James, la quale ha fuorviato le nuove generazioni sull’accezione di erotismo. Queste ultime “sfumature liberate” (secondo il titolo originale, che allude probabilmente al minutaggio appena rinforzato relativo alle scene “hot”) circondano l’ex-timida Anastasia (Dakota Johnson, futuro sinonimo di miscasting) e il riccone tormentato Christian (un Jamie Dornan ormai “umanizzato”), sposatisi e destinati – come del resto annunciato nel precedente capitolo – a diventare bersaglio delle invidie, all’occorrenza (penosamente) criminali, di chi vuol loro male. Però niente più sconfinamenti di Elena/Kim Basinger (perché?), dobbiamo accontentarci del boss silurato della neo-signora Grey (Eric Johnson), pateticamente uscito di senno. James Foley – che dopo il primo film sostituì in sede di regia la coraggiosa Sam Taylor-Johnson: quanto era importante mantenere perlomeno uno sguardo femminile? – scialacqua l’esigua dignità rimastagli (e pensare che A distanza ravvicinata e Americani sono suoi) provando a instillare pathos nei poco appassionanti (e poco credibili) risvolti della trama, fallendo miseramente. Si respira un’aria televisiva, la generale svogliatezza è palpabile, bravi caratteristi come Marcia Gay Harden sono relegati al ruolo di comparse. Attenzione: la coerenza stilistica ci sarebbe pure, ma a che serve in tale sfacelo?
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