IL CONCORSO, Rita Massaro

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– FOTO PRELEVATA DAL WEB –

Il commissario Raimondi guardò l’orologio. Le 23.35. Mancavano venticinque minuti esatti alla fine del turno. Già pregustava le calde coltri del suo letto. Era stanco. Non che la giornata lavorativa fosse stata particolarmente pesante. Tutt’altro. Erano settimane, ormai, che si sentiva così. C’era qualcosa di pesante nell’aria, che quasi gli toglieva il respiro. «Sarà che è arrivato l’inverno» gli ripeteva il suo vice, nonché amico Giordano. «L’inverno, si sa, porta tristezza. Oppure sarà la vecchiaia» aggiungeva, sfottendolo.

«Commissario, abbiamo un arresto in flagranza di reato».

Ecco, lo sapeva. L’agente Mancuso era stato assunto e veniva pagato ogni mese per entrare nella sua stanza a interrompere il filo dei suoi pensieri e rompergli le uova nel paniere, per non dire i cabasisi, come avrebbe sintetizzato senza tante perifrasi il suo più noto collega.

«Qual è l’accusa?»

«Lesioni personali» fu la risposta immediata e precisa.

«Che è successo? C’è stata una rissa?»

«No commissa’, un su’ picciuttunazza». Mancuso, ogni tanto, intercalava con qualche frase al naturale. «Pare che, senza apparente motivo, questo qui abbia aspettato l’altro sotto casa e l’ha fracchiato a legnate».

«Senza motivo, Mancuso. Può essere mai?» lo sfruculiò. «Ora uno, una mattina, anzi una sera, si sveglia e fotte a legnate un altro senza motivo. Un motivo c’è sempre».

«Infatti ho detto apparente, commissa’» si difese subito l’altro.

«Sarà questione di corna?» pensò il commissario ad alta voce.

«Probabile» fece seguito al suo pensiero Mancuso. «Anche se…»

«Anche se?»

«Pare gente per bene, commissa’. Insomma, non sono del popolino».

«E perché? Le corna e gli effetti derivati appartengono forse, in via esclusiva, a un particolare ceto sociale? Dimmi, piuttosto…»

«Dica, commissa’»

«Si sanno le condizioni dell’aggredito?»

«Ancora non abbiamo il referto del Pronto Soccorso. Ma i testimoni sostengono che quello rischia di perdere un occhio. Pare che, oltre a fracchiarlo a calci e pugni, gli ha pure sbattuto in testa un cellulare. Di quelli grossi, che sono anche computer».

«Uno smartphone?»

Mancuso lo guardò come se lo avesse insultato.

«Vabbè. Portamelo qui, lo voglio sentire. E manda a chiamare l’agente Vitrano».

Mentre attendeva, Raimondi, chissà perché, si sentì pervadere dall’angoscia. Guardò l’orologio e cercò di farsi coraggio. Se era roba di corna, e lo era sicuramente, in meno di mezz’ora ne sarebbe venuto a capo, avrebbe avvisato il magistrato e se ne sarebbe andato a dormire.

Pochi minuti più tardi gli agenti Mancuso e Vitrano accompagnavano l’aggressore dentro il suo ufficio. Aveva l’aria del classico bravo ragazzo. Ben vestito, ma senza roba pacchiana addosso, mani curate, volto rasato. Poi lo guardò meglio. Vide le rughe intorno agli occhi, nascosti dietro gli occhiali, e diversi capelli grigi. Non era proprio un ragazzo. Guardò il documento davanti a lui. Cosimo Valente. Lesse la data di nascita e il calcolo fu presto fatto. Quarant’anni. Impiegato.

L’uomo teneva gli occhi bassi, sembrava guardare un punto fisso sul pavimento. Ciò nonostante riuscì a scorgere gli occhi lucidi e arrossati. Le mani gli tremavano visibilmente.

«Dunque, signor Valente» cominciò. «Questo non è un interrogatorio. Voglio solo farle qualche domanda per capire cosa è successo, prima di avvisare il magistrato. Lei ha un difensore di fiducia?»

Quello, però, parve non sentire e continuava a fissare il pavimento.

«Signor Valente» lo richiamò, utilizzando un tono di voce più alto.

Finalmente parve scuotersi. Si guardò intorno, come se si stesse svegliando in quel momento e realizzasse finalmente dove si trovasse. Poi rivolse gli occhi verso di lui e, subito dopo, oltre le sue spalle in alto. Vide qualcosa che lo fece scoppiare a ridere. Fu una risata di pancia, di quelle che non riescono a farti smettere. Alla fine si concluse con una sorta di risucchio amaro che lo fece lacrimare.

Il commissario sapeva cosa c’era dietro le sue spalle, ma fin’ora mai a nessuno aveva scatenato ilarità. Cominciò a sudare freddo. Altro che mezz’ora.

«Allora, signor Valente… Ce lo dice cosa la fa ridere tanto? Così, magari, ridiamo pure noi?» cercò di sollecitarlo.

Silenzio. Ora era sprofondato in una sorta di lugubre mormorio. Cercò di comprendere le parole.

«Trentamila. Trentamila. Trentamila. Ci ho le prove. Ci ho le prove. Ora ci ho le prove».

Mancuso e Vitrano rivolsero impazienti verso di lui uno sguardo inequivocabile… pazzo come un cavallo.

«È lo stemma della Polizia?» ci riprovò Raimondi. «È quello che la fa ridere? O la bandiera? La foto del Presidente della Repubblica? È quella, per caso?»

I due agenti ridacchiarono sotto i baffi, ma il commissario li fulminò con lo sguardo.

«Te ne vai o ti adegui. Te ne vai o ti adegui. O soccombi. Soccombi. Soccombi».

Il commissario si spazientì.

«Signor Valente, se mi vuole fare credere all’infermità mentale, sappia che non spetta a me stabilirlo. Piuttosto, mi dice che cosa ha assunto?»

A quelle parole, l’altro scoppiò a ridere di nuovo.

«Droga? Droga? Magari Dio! Magari!»

«Oh, vedo che finalmente risponde alle domande! Che vuol dire magari?»

«Ma chi minchia ce li ha i soldi per comprare la droga? Ma lo sa quanto costa?» Poi, scoppiò di nuovo a ridere, guardandolo. «Ma certo che lo sa! Lei di certo… Con tutta quella che vi passa qui, se la fa gratis!»

«Ma come si permette?» gli urlò Vitrano. Raimondi, però, gli fece cenno di zittirsi. Forse, involontariamente, ci aveva ‘nsertato. Poteva essere cosa di droga.

«Certo! Mi scusi… » aveva ripreso quello, nel frattempo. «Tutti onesti siete voi! Tutti! Le posso chiedere cosa faceva suo padre?» fece, rivolto a Vitrano. «Aspetti… Non me lo dica. Mi faccia indovinare. Era poliziotto! Avanti, confessi! Era poliziotto, vero?»

«Forse lei non ha capito. Qui le domande le facciamo noi e, nel caso, è lei che deve confessare» gli spiegò, cercando di mantenersi calmo, il commissario. «Anche se non in questa sede» si affrettò ad aggiungere. «Questo, glielo ripeto, non è un interrogatorio formale».

«Sì, certo, certo. Confesso. Confesso. Sono una persona onesta! Onesta, capisce? Ha capito cosa ho detto? Onesta sul serio, no per finta! Mi punisca! Mi metta in galera! In galera devo andare e butti la chiave!» urlò disperato.

Dopo qualche secondo si girò di nuovo verso Vitrano. «Ma perché si vergogna? Perché? Lo confessi che suo padre era poliziotto!»

«Ma chi si vergogna?» esclamò, a quel punto, Vitrano. «Io ne sono orgoglioso!»

«Lo sapevo!» e scoppiò a ridere di nuovo. «Lo sapevo! Lo sapevo! Lo sapevo! E pure suo padre è poliziotto, vero? E pure il suo! Confessate dunque!» urlò. «Tutti i poliziotti sono figli di poliziotti!»

«La smetta di urlare!» gli intimò Raimondi.

«Va bene. Ma perché negare? Tutti i poliziotti sono figli di poliziotti, i carabinieri figli di carabinieri, i finanzieri figli di finanzieri, i professori figli di professori, gli avvocati figli di avvocati, i farmacisti figli di farmacisti, i medici figli di medici, i giornalisti sono figli di giornalisti!»

I due agenti si guardarono disperati. Poi, Mancuso ebbe la malsana idea di interromperlo.

«Veramente mio padre fa il meccanico» disse.

«Ah!» gridò quello, voltandosi verso di lui, con gli occhi da folle. «Allora lei ha pagato! Quanto? Me lo dica! Trentamila? O di più? No, aspetti! Lei magari ha usufruito della lira. Le è venuto di meno, vero?»

Mancuso lo guardò con aria interrogativa, come di chi non capisse dove l’altro volesse andare a parare.

Il commissario decise di intervenire, prima che ci arrivasse.

«Signor Valente, torniamo alla droga. Mi stava dicendo…?»

«Se solo li avessi i soldi per comprarla, ora sarei stecchito di quanta roba mi sarei fatto! E sarei in pace. In pace! E invece mi devo accontentare di questo schifo!» e gettò sulla scrivania una scatola di Xanax, tirata fuori dalla tasca. «Morire di Xanax non sarà piacevole come morire di una grossa dose di roba buona, non crede commissario?»

Raimondi prese la scatola fra le mani e cominciò a provare una sensazione sgradevole che non avrebbe saputo meglio definire.

«Nella pace degli angeli sarei! Come quel minchione di mio padre! E come quegli altri due lì!» disse, indicando la gigantografia sopra la testa del commissario. E scoppiò di nuovo a ridere.

«La fa ridere la foto di Falcone e Borsellino?» gli chiese incredulo il commissario.

«Certo che mi fa ridere! Perché a lei no?»

«No» rispose. «Direi proprio di no».

L’uomo aveva smesso di ridere e pareva caduto nuovamente in uno stato di trance. Invece, riprese a parlare.

«Io c’ero, sa? Ai funerali. E li ho pianti. Le mie erano lacrime sincere. Quanti anni sono passati? Venti? Ventuno?»

«Ventuno» precisò Raimondi.

«Io e Graziella ci andammo insieme. Stavamo insieme già da allora, sa? Ora sarebbero ventun anni».

«Chi è Graziella?» nella mente del commissario si riaffacciava, adesso, la pista passionale.

Lo sguardo dell’uomo si fece prima languido, poi di una tristezza talmente profonda che pareva sbucasse da una sorta di pozzo nero.

«Graziella… Era la mia fidanzata. Fino all’anno scorso. Poi, se n’è andata» rispose desolato.

«Vuol dire che l’ha lasciato?»

Valente non rispose.

«C’era… C’era un altro uomo, per caso?» il commissario fece un tentativo, regalandogli uno sguardo di comprensione. Ma quello s’infastidì.

«Ma quale altro? Quale altro? Se n’è andata, capisce? Se n’è proprio andata! In Galles! A fare la cameriera! Meglio la cameriera fuori che la morta di fame qua, ha concluso. Del resto, lì si comincia così, ma poi, nel giro di poco, si trova altro. E aveva ragione, cazzo! Certo che aveva ragione! E che dobbiamo fare? Le nozze d’argento da fidanzati? Così mi ha detto, prima di andarsene. Ma lei lo sa che significa essere ziti da vent’anni? E non potersi affittare una casa, fare dei progetti, un figlio? E quando lo dobbiamo fare il figlio? A cent’anni?»

A quel punto, i tre si guardarono sconsolati. A quello non c’era verso di tirargli fuori un discorso connesso con gli altri. Ma, ormai che aveva iniziato a parlare, pareva non riuscisse più a fermarsi.

«Laureata Graziella. Pure lei. Quattro lingue conosce. Tutto inutile. Ha vinto due concorsi a scuola, ma è sempre in graduatoria. Le graduatorie qua scorrono all’infinito. Ha lavorato per un po’ in una scuola privata, ma la sfruttavano senza pietà. Poi, ha cominciato con le lezioni private. Oggi sì, domani no, dopodomani no, giovedì non so, venerdì forse. Ha fatto anche delle traduzioni, ma le davano una miseria. Una volta, una signora le ha chiesto di fare doposcuola a suo figlio, tutti i pomeriggi, dal lunedì al venerdì, per tre ore al giorno. Graziella le ha chiesto 400 euro al mese, che sarebbero 100 euro a settimana, che sarebbero 20 euro al giorno, che sarebbero 6,66 euro l’ora. La signora ha rifiutato. Le è parso troppo caro. Allora, Graziella le ha fatto notare che alla colf pagava ben 7 euro l’ora. E la signora le ha risposto che non era la stessa cosa. La colf doveva essere donna pulita e fidata, mentre laureate come lei, che facevano doposcuola anche a 100 euro al mese, ne trovava quante ne voleva. Maledetti! Che siano maledetti!»

«Chi?» chiesero all’unisono i due agenti, sempre più sconcertati.

«Come chi? Loro! Mio padre! Suo padre! Chi ci ha mandato all’università? Chi? Chi ci ha detto che dovevamo studiare? Studia che ti troverai bene! Studia che troverai un buon lavoro! Studia che vincerai un concorso! Un concorso! Studia che ti arriveranno i soldi! Studia che sarai rispettato! Studia! Studia! Studia! Maledetti! Maledetto il giorno che ci misi piede, all’università! Maledetto il giorno che ho preso quel cazzo di 110 e lode!»

«Mi scusi» lo interruppe il commissario che, a quel punto, forse, cominciava a intravedere qualche spiraglio. «Ma, allora, perché non è andato con Graziella? A quest’ora era in Galles pure lei ed eravamo tutti felici e contenti».

«E a mia madre ci pensava lei? Ma, secondo voi» chiese, voltandosi anche verso gli altri due «se non ero legato qua, mani e piedi a questa terra infame, non me ne ero già scappato da tempo?»

«Perché? Che cos’ha sua madre?» chiese Vitrano, oramai incuriosito pure lui.

«Mia madre è invalida al cento per cento. Pensi che sopravviviamo grazie alla sua pensione di invalidità più l’accompagnamento. Settecentocinquanta euro al mese. E meno male che stiamo in casa di proprietà, sennò a quest’ora eravamo sotto i ponti».

«E nessun altro può badare a sua madre?» insistette incauto Vitrano.

«Mio padre, maledetto dove sta, è morto anzitempo. Oramai, sono più di quindici anni. I miei fratelli se ne scapparono subito, appena preso il diploma. Non hanno perso tempo all’università… Mica fessi! Uno in Belgio, l’altro in Germania, hanno lavoro e famiglia e sono felici. Io ero il più piccolo, il fortunato, quello che poteva studiare, rimanere accanto ai genitori e risollevare le sorti sociali dell’intero nucleo familiare!» e scoppiò nuovamente a ridere. Ma, quasi subito, si fermò e riprese. «Che devo fare? Lasciare la mischina in una casa di riposo? Quella ci muore! Ma lo sa che lei è veramente convinta che sono fortunato? Meno male che ci abbiamo la casa, gioia di mamma, e la mia pensione, mi dice. Non ti scantare che possiamo camparci tutti con la mia pensione. Non c’è niente di male. Tutti per ora aiutano i figli. Diglielo a Graziella. Diglielo che venite a stare qua. Ma se l’immagina, commissario?» tornò a urlare, inaspettatamente, facendolo sussultare.

«Mia madre non ha idea! Non capisce che il lavoro non serve solo per mangiare! Mia madre non capisce che il lavoro serve anche per dare dignità a un essere umano!» non riuscì più a trattenere lacrime di rabbia.

I tre, a quel punto, si guardarono imbarazzati.

Gli occhi di Raimondi caddero sul documento d’identità che aveva davanti.

«Qui c’è scritto impiegato. Ha perso il lavoro?»

«Perso? Meglio perderlo che trovarlo, quello! Ha presente quelli che le rompono i coglioni chiamandola a casa a tutte le ore, pure dopo le nove di sera, per venderle qualcosa?»

«Ho presente, sì» chinò la testa il commissario.

«Mica ci pagavano a ore! Ci pagavano a contratto. A volte lavoravi anche sei o sette ore al giorno e, a fine mese, non arrivavi a trecento euro. Tutto legale! E in che condizioni lavoravamo! Venti in una stanza buia, con mezza finestra e cessi da paura. Ho tirato avanti per sei anni, poi non ce l’ho fatta più. Mi stavo ammalando».

«E non ha mai provato ad aprire un’attività?» gli chiese Mancuso.

L’uomo sorrise. «Ci abbiamo provato, sì. Con la casa al mare dei genitori di Graziella. A Cinisi… Lo conosce quel paese dove si è fatto ammazzare quell’altro mischino?» chiese, rivolgendosi al commissario.

«Lo conosco, certo» gli rispose, facendo finta di non cogliere il riferimento al morto ammazzato, per non inasprirlo ancora di più.

«Ne abbiamo fatto una casa vacanza. Ci abbiamo speso pure un sacco di soldi per sistemarla e arredarla. Già il primo anno è andata bene. Abbiamo affittato un’intera stagione ai turisti».

«Perfetto! E allora?» lo incitò Vitrano.

«E allora quelli si lamentavano che il circondario era sommerso dai rifiuti, che il mare era sporco e non somigliava a quello delle cartoline. E poi mancavano i servizi, i collegamenti! E i musei e le cose da visitare erano chiusi! Per mancanza di personale!» qui scoppiò a ridere di nuovo.

«Mancanza di personale! Se lo immagina? Abbiamo forse più impiegati del Galles e dell’Inghilterra messi insieme! E come se non bastasse, togliendo le spese, i soldi per la manutenzione e quelli per il pizzo… Lo sa quanto ci è rimasto? Gli occhi per piangere!»

«Pizzo?» a quella parola Raimondi si era immediatamente proteso verso di lui e i due agenti erano scattati sull’attenti.

«Pizzo, sì! Per me è pizzo!» rispose quello.

«Chi è venuto a chiederle il pizzo?»

«Il mio commercialista!»

I tre si guardarono interdetti.

«E per conto di chi?» chiese il commissario, sempre più allibito.

«Dello Stato! E di chi sennò?»

Raimondi abbassò le braccia, quasi in segno di resa.

«Sta parlando delle tasse?»

«Le tasse, sì, le tasse. L’americana me lo diceva. Guarda che non potete dichiarare tutto. Io vengo da New York ed ero abituata pure così. Il primo anno ho dichiarato tutto e ho capito che avrei potuto chiudere. Per sopravvivere dovevamo fare come fanno tutti. Non dichiarano. Lavorano in nero. Anzi, l’americana qualcosa dichiara. Noi, ovviamente, imbevuti di tutte quelle robe lì, abbiamo dichiarato tutto. Come potevamo fare diversamente? Me lo dica!»

Mancuso e Vitrano parevano stremati.

Raimondi, che aveva compreso perfettamente quali erano tutte quelle robe lì, comprese pure che, se avesse continuato a lasciarlo libero di parlare, avrebbero trascorso lì l’intera nottata. Perciò decise di riprendere in mano le redini della discussione e lesse velocemente la scheda con i dati della persona offesa.

«Va bene. Ora mi spiega per quale motivo stasera ha deciso di prendersela con il signor Vitale?»

A quella domanda lo sguardo dell’uomo si rabbuiò e un’ombra d’odio comparve sui suoi occhi. Non rispose subito. Tornò a guardare verso il pavimento con aria truce.

«Valente, Vitale. Valente, Vitale. Valente, Vitale» cominciò a mormorare. Poi, alzò lo sguardo verso il commissario. «Capisce?»

«A essere sincero, no».

«Con la V! I nostri cognomi iniziavano entrambi con la V… Era mio compagno di banco. La professoressa d’italiano ebbe la malsana idea, il primo giorno di scuola, di farci sedere in ordine alfabetico, per memorizzare più facilmente facce e cognomi. Dal giorno dopo potevamo cambiare, ma quello non mi ha più mollato. Gli servivo perché scopiazzava i miei compiti. Ho dovuto sopportarlo per tutti e cinque gli anni delle superiori! Perciò, lo conosco bene il soggetto!»

Raimondi sospirò, seguito in rapida successione dagli altri due. Forse si stavano avvicinando, finalmente, a quanto interessava loro.

«Ed era un cattivo soggetto?» gli chiese senza perdere troppo tempo.

«Cattivo, sì. Cattivo, cattivo, cattivo. Ricco da fare schifo. Suo padre era proprietario di una concessionaria».

«La concessionaria Vitale! La conosco, ci presi l’auto un paio d’anni fa» lo interruppe Mancuso, meritandosi l’occhiataccia del commissario.

«Torniamo al signor Vitale. Oggi l’ha fatta arrabbiare?» riprese il commissario.

Valente scoppiò nuovamente a ridere, causando agli altri un’esclamazione di esasperazione.

«Concorsi, concorsi, concorsi. Tutti me lo dicevano, tutti. Lascia stare, tanto è inutile. Tutti assegnati sono, tutti. E io rispondevo… Non ci credo. Se studi, prima o poi, ti piazzi in graduatoria. Prima o poi, ti chiamano. Una parte è per loro, lo so. È come la riserva per le categorie protette o quelli che hanno già lavorato per le amministrazioni. C’è la riserva per i raccomandati. Ma l’altra… l’altra parte è libera. Ci arriva chi studia e se lo merita. Povero illuso, mi dicevano. Una sera, un amico a cena, c’era pure Graziella, mi consigliò di finirla di fare concorsi. Era fatica sprecata. Oppure, mi disse, dovevo uscire trentamila euro».

«Trentamila euro?» gli fece eco Vitrano.

«Sì, pare che in città sia questo il prezzo per un posto di lavoro. Per quelli che non sono raccomandati in quanto sono “figli di” o “amici di” o “parenti di”».

«E il suo amico come faceva a saperlo?» gli chiese il commissario.

«Mi disse che in città lo sapevano tutti, pure i cani. Non si ricordava neppure da chi l’aveva saputo. Era una di quelle voci che girano, di cui nessuno ha le prove ma che tutti pensano sia vera».

I tre poliziotti si guardarono alluccuti.

«A me pare ‘na minchiata col botto» commentò ancora Vitrano.

«Io pure lo pensai. E glielo dissi a Graziella, quando l’amico se ne andò. Ma quella non volle più sentire ragioni. Basta! mi disse. Qui, in questo paese, le cose stanno così. Rassegnati… O te ne vai o ti adegui. O soccombi! Soccombi! Soccombi!» e cominciò a piangere come un bambino, tanto che gli occhiali gli si bagnarono e dovette toglierli. Il commissario tirò fuori dalla tasca il fazzoletto e glielo porse.

«Io non ci potevo credere, non potevo. Capisce commissario? E invece oggi ho scoperto che è tutto vero… Ho le prove, le prove ho!»

I tre si guardarono ancora una volta interdetti.

«E quali sarebbero queste prove?» chiese Raimondi.

«Vitale era un asino. Non sapeva scrivere fino all’esame di maturità una frase, dico una sola frase, in lingua italiana che non fosse zeppa di errori. Tanto non ne ha bisogno, tutti pensavamo. È ricco e lavorerà nella concessionaria del padre, come infatti è stato in tutti questi anni».

«E invece cosa è accaduto?» lo spronò Raimondi, sollevato dal fatto che si stava finalmente arrivando al dunque.

«È accaduto che me lo sono ritrovato all’ultimo concorso che ho fatto. Era proprio nella fila davanti a me. L’ho riconosciuto subito!»

Il commissario cominciava a capire.

«L’ho chiamato per accertarmi che fosse lui. Era lui, anche se mi ha salutato a mala pena. Evidentemente non era troppo contento di vedermi. La prova cominciò subito, perciò non ebbi tempo di chiedergli cosa ci facesse lì. Poi, sono stato preso dall’elaborato e non ci ho più pensato. Fino a quando non hanno pubblicato l’esito della prova scritta».

«Ebbene?» chiesero tutti quasi all’unisono.

«Ho preso 20. Non sono passato per un punto. Un solo punto, capisce? Eppure ero convinto di aver risposto bene, certo che sarei arrivato almeno alla sufficienza! Poi, mi è tornato in mente Vitale e mi venne la curiosità di andare a vedere… 24! Minchia!» urlò, con gli occhi che pareva volessero schizzare fuori dalle orbite. «Non è possibile, capite? È matematicamente impossibile che quel decerebrato sia stato capace di arrivare a tanto! Non è un’ipotesi! È una certezza!»

«Mah» il commissario non pareva convinto. «Potrebbe essere migliorato in questi anni. Magari ha fatto dei corsi, frequentato scuole o preso lezioni private».

«Certo! Pure io ci ho pensato. Per questo sono andato sulla sua pagina di Facebook e gli ho chiesto l’amicizia. È talmente idiota che me l’ha data. Quello che ho letto su quelle pagine è vergognoso… Dovete credermi, vergognoso!»

«E per questo l’ha aspettato sotto casa e l’ha mezzo accoppato?» saltò alle conclusioni Mancuso.

«No! Io sono andato sotto casa sua solo per chiedere spiegazioni!»

«Spiegazioni?»

«Sì. Per cominciare gli ho chiesto perché avesse fatto quel concorso. Che bisogno ha di quel posto? Lui è ricco e lavora già nella concessionaria. Mi ha risposto che, con la crisi che si fa sempre più pressante, è meglio avere un posto sicuro. A quel punto, gli ho chiesto quanto ha pagato».

«E lui?» lo incalzò il commissario.

«Niente. All’inizio ha fatto finta di non capire e mi ha dato del pazzo. Ma io ho insistito, tanto ormai non avevo più niente da perdere. Gli ho chiesto se avesse pagato trentamila euro. Proprio in quel momento cominciarono ad arrivargli una sfilza di messaggi sullo smartphone. Lui voleva rispondere, ma io non lo lasciavo andare e così…»

«E così?»

«Alla fine ha confessato! Ma quali trentamila? mi ha detto, sogghignando, a mezza voce. Di più, molto di più! E, nonostante questo, c’è chi ha uscito ancora di più ed è avanti a me in graduatoria! Ha detto proprio così. Io non riuscivo a crederci veramente, per un attimo ho pensato che non dicesse sul serio, che bluffasse per liberarsi di me. Perciò, cercavo di trattenerlo per saperne di più. Ma lui era infastidito, pensava solo a rispondere a quei maledetti messaggini del cazzo! Allora ho minacciato di denunciarlo, di fare ricorso, di far saltare il concorso. Lui si è fatto una bella risata. E le prove, dove ce le hai le prove? Mi fai schifo, gli ho urlato fuori di me. Mi fai schifo tu, morto di fame! ha ribattuto lui. Mica è colpa mia se io ho i soldi e tu sei un morto di fame! Poveraccio! E mentre lo diceva, continuava a smanettare con il cellulare. A quel punto non ci ho visto più! Gliel’ho preso dalle mani e gliel’ho ficcato nel cervello, così non avrebbe più avuto bisogno di rispondere ai messaggi».

Dopo quell’ultimo sfogo, uno strano silenzio era calato nella stanza. Poi, il commissario prese la parola.

«Avrebbe dovuto venire da noi. Spettava a noi fare i dovuti controlli e…»

Quello non lo fece finire e scoppiò a ridere nuovamente.

«I poliziotti sono figli di poliziotti, i magistrati sono figli di magistrati…»

«E la finisca con questa stupida filastrocca! Le assicuro che c’è ancora tanta gente per bene in questo paese, lei non è l’unico rimasto!»

«Questo paese è come molte di quelle banane che giungono a noi da tanto lontano, dai paesi tropicali. Fuori sono belle, di un bel colore giallo verde. Poi, le apri e la banana è marcia. Completamente da buttare».

«Andiamo, le sembra questo il modo di reagire? Farsi giustizia da solo? Una persona come lei, con i suoi principi?»

«I miei principi mi hanno fottuto! I miei principi!» piagnucolò. «Ma non capisce? Tutti si adattano! Tutti! Lo sa che mi ha detto il mio amico, quando dicevo che non avrei mai accettato una raccomandazione? Perché non era giusto? Perché avrei potuto togliere il posto a qualcuno che lo meritava più di me? Lo fanno tutti e toglieresti il posto solo a un altro raccomandato di certo meritevole meno di te! Così mi ha detto! E aveva ragione, cazzo! Aveva ragione! Ma come fanno? Me lo dice come fanno? E poi vanno alle fiaccolate a alle manifestazioni antimafia! Ma che razza di paese è mai questo, dove uno viene punito ogni giorno solo per la sua onestà?»

«Bé, ora neanche lei lo è più. Ha appena commesso un reato. È diventato degno di questo paese» ironizzò Mancuso, prima che il commissario facesse in tempo a fermarlo.

E, infatti, quello strabuzzò gli occhi e cominciò a urlare come un ossesso.

«È vero! È vero! Sono un delinquente! Sono un farabutto, un criminale, un malfattore! Mandatemi in Parlamento! In Parlamento voglio andare! In Parlamento!»

I due agenti accennarono a un sorriso, ma Raimondi li bloccò sul nascere. Fece loro cenno di portarlo via. Le sue grida gli giungevano ancora dal corridoio.

«Ai giornali! In televisione! Sono un caso umano! Fatemi intervistare da una di quelle oche giulive! Qualcuno chiamerà in trasmissione per offrirmi un lavoro! Un lavoro!»

Raimondi, dopo che quel trambusto finì, pensò che avrebbe fatto fare dei controlli su quel concorso. Doveva avvisare il magistrato, facendogli un minimo resoconto di quanto aveva appreso, ma gli scoppiava la testa. Sentiva uno strano fuoco dentro, un’angoscia quasi insopportabile. Si alzò dalla poltrona e andò a guardare fuori. La vista dava sul porto. Si intravedevano le moli massicce di un paio di navi da crociera e persino le sagome più piccole delle barche attraccate alla cala. Il panorama da lì era uno spettacolo e a quell’ora della notte sembrava tutto tranquillo. Eppure lui lo sentiva. Sentiva qualcosa arrivare. Forse da quello venivano la sua angoscia e la sua tristezza. Era come uno di quei cani che ululano perché sentono arrivare in anticipo il terremoto. Lui per la verità non ululava. Ma tanto sarebbe stato inutile, pensò. Il suo ululato si sarebbe confuso in mezzo a tutti gli altri che, inascoltati, infestavano la città e l’intero paese.

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Mi chiamo Rita Massaro. Sono una persona curiosa. Mi piace scoprire gli innumerevoli volti del mondo e le infinite possibilità della vita. Per questo leggo e viaggio. Ogni tanto le mie perlustrazioni scatenano la mia immaginazione. E scrivo. Ho pubblicato nel 2011, con la Casa Editrice Absolutely Free, un romanzo di formazione dal titolo "L'estate è finita". Nel dicembre 2016 è stato pubblicato il mio secondo romanzo, "Sotto il cielo di Santiago", con la Casa Editrice Genesis Publishing. Nel 2018 "Prima che sia primavera" con Il Seme Bianco, pubblicato in seconda edizione con il titolo "La terra del lungo inverno" con Emersioni. Ho partecipato a vari progetti di scrittura collettiva, tutti pubblicati nel 2020: "La villa delle ombre", con Stefania Agnello e Maurizio Bono; "Non ho forza per arrendermi", con Letizia Lo Cascio; "A casa: Diario di una pandemia" con Monica Spatola. Potete contattarmi su Facebook al seguente link: https://www.facebook.com/ilgirodelmondoconunlibroinmano