TUTTO BENE MR.RAMSEY? Maurizio Bono

campmare– FOTO PRELEVATA DAL WEB –

Oggi ho il piacere e l’onore di farvi leggere un racconto di Maurizio Bono, uno degli autori più amati dai lettori di storiebrevi.it e lo ringrazio per avermelo gentilmente inviato.

Il tempo. Il tempo è un galantuomo. È gentile quando ce lo prendiamo. Tutto per noi. E quando ci vede indecisi, ci viene incontro. Premuroso. Ci apre la portiera come fosse al nostro servizio. Ci fa salire dentro i suoi ingranaggi. Spiegandoci come funzionano. Ci dà una lezione di vita parlandoci della meccanica del nostro cuore. Non in maniera meccanica. Lasciandoci senza parole. E in un universo che non ha più spazio. Né tempo. Poi ci lascia vedere com’è fuori. Le case. Le città. La gente che cammina. Quella che aspetta. Ci lascia vedere le cose da fuori. Dal finestrino della sua macchina del tempo. E ci offre un passaggio. Un giro del mondo che può durare una vita intera. A volte molto meno. Dipende da noi. Dall’interesse profuso. Possiamo farlo in mongolfiera. O su un jet supersonico. Dipende dal tempo che ci prendiamo. Dipende da quanto vogliamo vedere. E se vogliamo restarci dentro o guardare il mondo dal posto in cui eravamo. Prima che cominciasse tutto. Prima che il tempo iniziasse a contare.

Uno. Il tempo è nostro amico. Da sempre. Da quando nasciamo. Il tempo ci fa crescere. Ma non ci dice come. Ci fa riflettere. Ragionare. Agire. Ci dà il tempo di pentirci. Di tornare indietro. Di ricominciare.

Due. Il tempo è un nostro alleato. Possiamo prenderci tutto il tempo che vogliamo. Prima di partire. Per una nuova impresa. Prima di restare. Esattamente dove siamo. A volte ci lascia ad aspettare. Che altro tempo sostituisca quello vecchio. Per un nuovo progetto. O per un nuovo fallimento. Quando viaggiamo il tempo si ferma. Ci fa assaporare i luoghi. Gli odori. I paesaggi. Ci lascia immaginare come sarebbe stato. Se avessimo provato ad andare. Piuttosto che restare. Esattamente dove siamo sempre stati. Nello stesso identico posto.

Tre. Il tempo ci dà coraggio. Ci lascia cadere. Ci aiuta a rialzarci. Ci fa camminare su strade che a volte non conosciamo affatto. Ci dà il tempo di provare a fare un salto nel buio. Prima che si riaccenda la luce. Ci fa gustare l’alba. Ci fa mangiare con gli occhi un tramonto. Ci dà il tempo di arrivare al largo. Per poi lasciarci tornare a riva. Liberamente. Quando vogliamo. Senza giudicarci.

Quattro. Ma il tempo può essere un giudice spietato. Quando lo perdi. Quando non lo trovi. Quando speri che le cose cambino da sole. Quando speri che qualcuno faccia la tua parte. Ignorando che tu hai la tua. Quando rinunci. Quando non ci provi.

Cinque. Il tempo continua a contare ma io non conto più su di esso. Il tempo non è più mio amico. Non lo è più da tempo. Perché passa. Senza che io lo trovi. Perché chiede tempo. Senza darmi risposte. Perché mi lascia così. Esattamente dove sono. Perché mi lascia ad aspettare. Una portiera che non si apre. Una speranza che non arriva. E io lo odio perché aspetta il momento adatto. Il momento per dire alla meccanica del mio cuore che Norman non tornerà più.

Norman era la vita. La nostra vita. Era il nostro bambino. L’unico. Ed era unico. Si sentiva piccolo. Un piccolo uomo alla ricerca dell’universo. E così piccolo cercava la grandezza che si nasconde dentro le piccole cose. Dentro le piccole vite. Non mostrò mai particolare interesse per l’uomo. Tranne che per la sua anatomia. Voleva capire come era fatto dentro. Cosa lo facesse muovere. In avanti. O indietro. Cosa lo portasse a starsene fermo. Con tutti i vasi, le vene, i muscoli e l’aria che respirava. Gli interessava la scienza in un corpo spesso incosciente. Quasi sempre fuori luogo. Per il resto non capiva i grandi. Né il tempo che non trovavano. Né quello che perdevano. Norman non aveva amici. E non ne cercava. Non parlava a parole. Era muto. Dalla nascita. Ma aveva sviluppato il linguaggio degli occhi. E parlava con la loro luce. Gettando qua e là qualche ombra. Sulle nostre vite. Che spesso non capivano la sua. Norman sentiva i suoni del mondo. Le voci della natura. E sentiva le parole che usava l’uomo. Quando parlavamo – io e mia moglie – lo vedevamo sorridere. O incupirsi. Forse perché leggeva le nostre facce. Forse perché capiva più di noi.

La nostra vita con Norman era piena di vita. Lui riempiva le nostre giornate con i suoi silenzi. Noi lo guardavamo incuriositi. Certo impauriti per il futuro. Per il nostro. Per il suo. Ma il presente seppur complesso ci sorprendeva. Avevamo lui e malgrado le difficoltà, i dubbi, il nostro guardarci a volte titubanti, impauriti, lasciavamo che la nostra vita scorresse per quello che era. Così come si presentava ai nostri occhi. Ai nostri e a quelli di Norman. E poi avevamo lui. Tutto il resto lo lasciavamo al suo silenzio. E alle nostre parole.

La nostra casa era bellissima. E quando c’era Norman lo era ancora di più. La sua stanza era al centro. Come lui lo era nelle nostre vite. Era una casa semplice. Di legno. Circolare. Lineare ed essenziale. Tutta a vetri. Era una casa tra gli alberi. Una casa fatta per guardare la natura che stava lì fuori. Lasciando che i nostri occhi la contemplassero. E la vivessero. Noi guardavamo lo spettacolo delle stagioni seduti sul nostro divano. Eravamo gli spettatori inconsapevoli di quel meraviglioso spettacolo sotto il cielo. Norman no. Lui non si limitava a osservare la bellezza. Cercava di scoprire cosa la animasse. Chi o cosa le desse vita. Così scendeva giù. Tra gli alberi. Con la curiosità di un esploratore in erba che cerca di capire cosa muove tutta quella vita. In mezzo a tutto quel verde. Aveva appena cinque anni quando lo vidi tornare stringendo tra le mani una piccola lucertola. Senza vita. Non ho mai saputo se gliel’ avesse tolta lui. E non glielo chiesi. Ma era così felice di stringere quel piccolo rettile tra le mani. Così felice di poterlo sezionare per capire cosa ci fosse dentro. Che lo lasciai sperimentare senza chiedergli nulla. Lasciando solo che i miei occhi lo guardassero. Senza farmi vedere. Lo sentii scivolare nella sua stanza. Lo spiai mentre apriva quel piccolo rettile con un paio di forbici lunghe e affilate. Con la sua lente di ingrandimento lo vidi mentre osservava ciò che si nasconde agli occhi di tutti. Organi. Muscoli. Tendini. Ossa. Non che lui conoscesse il nome di tutti questi termini. Ma ne intuiva i meccanismi. Le dinamiche. Sono certo che riuscisse a spiegarsi il funzionamento di quella macchina del mondo animale. Perché Norman si poneva tante domande. Disegnando le sue risposte su piccoli fogli a quadri che poi appendeva sopra il suo piccolo scrittoio. L’anatomia di una lucertola secondo Norman Ramsey fu il primo di una lunga serie di disegni. E di risposte. In breve tempo Norman conobbe la natura dei piccoli rettili. Per poi passare rapidamente agli invertebrati. Agli insetti in particolare. Studiava lo stato larvale. La sua metamorfosi. Il divenire altro. La trasformazione in un insetto adulto. Bello e delicato come una farfalla. O misterioso come un coleottero. Ma rimaneva affascinato dai vermi. Norman non capiva il perché della loro esistenza. Sapeva che non c’era una spiegazione plausibile. La natura aveva deciso così. L’uomo poteva solo accettarla. Norman non nutriva un grande rispetto per queste strani esseri. Non li sezionava mai. Li osservava con cura mantenendo una certa distanza. E di solito preferiva lasciarli in vita un tempo ragionevole, assaporando il momento in cui li avrebbe schiacciati. Perché i vermi andavano schiacciati. Secondo la sua teoria. E anche secondo la mia.

Per il suo settimo compleanno gli regalai un bel microscopio ottico. Norman non aveva mai mostrato particolari inclinazioni per l’universo macroscopico. Tantomeno per il mondo visibile. Tangibile ai più. Il senso comune. Il comune sentire. Non erano suoi. Lui non li possedeva. Né tantomeno si faceva possedere e ammaliare dalla vista superficiale. Odiava gli occhiali. Non lo aiutavano a vederci più chiaramente. E per uno che vuole cercare la sostanza dietro l’apparenza – scoprire la grandezza dell’ infinitamente piccolo – occorreva uno strumento adeguato. Una speciale lente di ingrandimento che lasciasse intravvedere i dettagli. L’essenza di un tutto. La radice delle cose. I rami dell’albero della vita. Cominciò a studiare le piccole gocce d’acqua. Con tutto quello che nascondono. La vita in una sfera con la configurazione energetica più bassa. Le creature d’acqua dolce in particolare. Larve. Crostacei. Girini. Per poi soffermarsi sulle libellule. E quanti schemi nei suoi disegni. Quante risposte si dava e dava a noi che lo guardavamo tessere le fila di un mondo sconosciuto ai più. Il microscopio lo spinse fin dove la sua giovane mente umana osasse sperare. Sciogliendo piccoli nodi di incomprensione. Scovando la verità apparente nelle fondamenta delle più piccole strutture viventi.

La stanza di Norman si riempì di disegni di ogni forma vivente. L’anatomia della vita dei vertebrati – e non – era il suo pane quotidiano. I muri tappezzati in ogni ordine di posto dai suoi piccoli fogli a quadri, dove spiccavano spiegazioni e le soluzioni di dilemmi che andavano oltre l’apparenza delle cose. Spiegandone l’essenza. Un solo disegno si distingueva per natura e forme. Un disegno in cui Norman rappresentò la sua famiglia. Me. Mia moglie. E lui al centro. Tutti colorati di azzurro. Lui invece si era disegnato con dei contorni molto netti. E si era dipinto di blu. Un bel blu oltremare. Tutti e tre legati da un abbraccio un po’ legnoso. Ma la rigidità del tratto accompagnava una morbidezza di sentimenti e un sentirsi come parte integrante di un unico nucleo. Il nucleo di una cellula familiare. L’unica che oltre i suoi studi gli fosse congeniale.

Io e mia moglie continuavamo a guardare il meraviglioso spettacolo delle stagioni seduti comodamente sul nostro divano. Sereni per il suo succedersi con la costanza del tempo. Sicuri che nostro figlio – un giorno – ci spiegasse la natura di quell’affascinante regista. E nella serenità di un giorno come tanti – in cui la vita scorreva come gli altri giorni – non trovammo più Norman. Quella straordinaria creatura sparì. Nel nulla. Eppure era con noi. Lì. Nella nostra casa. Nella sua stanza delle meraviglie. Quando lo chiamammo doveva essere ancora lì. Ma non ci rispose. Non rispose mai più. Lo cercammo, improvvisamente impauriti da ciò che mai ci saremmo aspettati. Lo cercammo con il terrore negli occhi. Correndo da un posto all’altro quasi senza respiro. Mettemmo a soqquadro la nostra casa. E il mondo lì fuori. Il suo mondo. Lo cercammo dentro l’acqua che lui aveva esaminato goccia dopo goccia. E in mezzo a tutti i vertebrati di cui aveva studiato lo scheletro e i movimenti. Né i prati verdi, né gli alberi su cui salimmo ci risposero. Tantomeno ce lo restituirono. Tutto l’universo improvvisamente divenne muto. Come lo era Norman. Dalla nascita. Ma la natura non poteva avercelo portato via. Perché lui la amava così come noi amavamo lui e tutte le sue creature. Eppure di Norman perdemmo ogni traccia. La disperazione di chi non trovava risposte ci portò a un dolore che ci avrebbe allontanati. Me e mia moglie. Di giorno in giorno. Improvvisamente ci accusammo di irresponsabilità che in fondo non credevamo di avere. Forse non eravamo stati così attenti all’evoluzione di quel giovane uomo. Di ricercatore di una vita assoluta. Forse mia moglie credette che io lo avessi incoraggiato oltre misura. Regalandogli quel microscopio con il quale Norman magari si era spinto oltre ogni possibile spiegazione. E poi il rancore e l’astio entrarono nella nostra casa di cui involontariamente avevamo aperto la porta. Così mia moglie mi abbandonò. Tirandomi una foto di Norman in faccia. In un gesto d’accusa. L’ultimo che mi rivolse.

Il tempo continuava a contare. Imperturbabile. Contava i minuti. Le ore. Continuava a non essere mio amico. Il tempo non mi restituiva Norman. Le mie ricerche andarono avanti. Senza sosta. Giorno e notte. Ma Norman non c’era più. Era scivolato via dalle nostre vite. In silenzio. Senza parole. Lasciandoci al nostro silenzio. Alle nostre riflessioni. La nostra bella casa non era più bella. Era sola. Come solo ero rimasto anch’io. Come sola doveva essere anche mia moglie. Ognuno col suo dolore. Ciascuno a custodire il ricordo di Norman. La sua insaziabile curiosità. La sua mancanza. Non mi era rimasto nient’altro che un comodo divano su cui sedermi aspettando il rincorrersi delle stagioni. Mentre aspettavo il tempo in cui il mio battito si fermasse. Senza più rincorrere la sua abituale frequenza. Fino alla fine del mio tempo. Quando mi accorsi che l’unica cosa che non avevo fatto in quel periodo caotico e devastante era entrare nella stanza di Norman. Mentre cercavo l’istante in cui il mio orologio biologico abbandonasse la mia inutile vita, non ero più entrato nella stanza di mio figlio. Così decisi di alzarmi, in quello che pensavo fosse l’ultimo sforzo di una coscienza che si stava esaurendo lentamente. Mi alzai dal divano delle attese e mi fermai sull’uscio della sua stanza. Dal giorno della sua scomparsa nessuno ci era più entrato. Quel giorno vinsi la mia reticenza. Uscii dalla mia gabbia ed entrai nel suo tempio. Mi avvicinai ai suoi disegni. Alle anatomie degli esseri viventi. Agli schemi biologici delle vite nell’acqua. Forse per la prima volta mi avvicinai alla vita di Norman. Osservai i suoi disegni. Prima superficialmente. Soffermandomi solo su alcuni. Quelli che mi sembravano più vivi. Anche se riproducevano i resti di corpi sezionati e strappati alle loro vite naturali. Poi sfiorai il suo piccolo scrittoio. Quasi potessi accarezzare le sue mani. Sentendole ancora vicine. Vidi quell’unico disegno così diverso da tutti gli altri. Il ritratto di famiglia. Quando lo eravamo ancora, una famiglia. Io. Mia moglie. E lui dipinto di blu oltremare. Al centro. Poi mi fermai davanti al suo microscopio. Quel magnifico oggetto che ti lasciava intravvedere un mondo dentro altri mondi. Che ti dava la possibilità di capire realmente quale realtà muovesse quella apparente. Stanco e svuotato mi sedetti sulla sua sedia. Toccando quel ritrovato dell’ottica seicentesca. Costruito per vedere le verità nascoste. Quando mi accorsi che sul vetrino c’era una piccola foto. Era un piccolo ritratto di Norman. La scoperta mi incuriosì non poco perché non pensavo che le persone o i loro ritratti lo avessero mai interessato. Ma in effetti quella era una foto che aveva per oggetto la sua faccia. Forse Norman voleva capire. Forse voleva capirsi. E volevo capire anch’io. Così mi avvicinai agli oculari del microscopio. Cercando di scoprire l’ultimo obiettivo di Norman. L’oggetto della sua ultima ricerca. All’inizio vidi una massa sfuocata. Un ammasso di filamenti sottoposti al caos cosmico. Un groviglio che si spostava con la frenesia della pazzia. Senza una direzione privilegiata. Un insieme che mi portava a distogliere i miei occhi da quella ragnatela inestricabile. Ma decisi che avrei continuato. Cercando con la curiosità che era stata la sua. Cercando una risposta al suo ultimo quesito. Lasciai che i miei occhi si abituassero. Lasciai che si immergessero dentro quei filamenti che correvano. Quasi senza senso. Poi riuscii a focalizzare la mia vista su un particolare. Sembrava un gheriglio di noce. Un piccolo gheriglio senza guscio. Poteva essere il suo cervello. Potevo aver perso il mio. Ma poteva essere – quello – il cervello di Norman? Al microscopio ottico? Quasi un’eresia. Tutto sembrava non avere una spiegazione logica. Anch’io provai a rimanerne sprovvisto. E sprovvisto di ogni barlume di razionalità continuai la mia ricerca. L’ultima. Quando misi perfettamente a fuoco quello che sembrava il suo cervello, cominciai a ingrandire quell’immagine. Lentamente. Ma inesorabilmente. Mi ritrovai dentro di lui. Ero entrato nella sua testa. Dentro la mente di Norman. E vidi. Con la nettezza di una certezza cercata per tutta la vita. Con la nitidezza di occhi che ambiscono a scoprire la verità. Vidi. La sua stanza. Ero dentro la sua stanza. Esattamente uguale a quella in cui fisicamente mi trovavo anch’io. Adesso. Con gli occhi dentro il suo microscopio. E al microscopio stavo rivedendo il suo mondo. Dentro il cervello di Norman. Ma lì dentro non ero solo. Dentro la stanza di Norman – costruita nel suo cervello – adesso non ero solo. Tutti i piccoli rettili che lui aveva sezionato per sete di conoscenza – adesso – erano vivi. Li vedevo vagare per quella stanza come avessero fame. Tutte le larve di farfalle e di libellule. Tutti i coleotteri. E tutti i vermi che Norman schiacciò senza pietà quando erano ancora in vita. Tutto il mondo animale – vertebrato o invertebrato che fosse – era uscito dai piccoli fogli a quadri e ora viveva. E tutti sembravano avere un solo desiderio. Mangiare. Cibarsi. Divorare. Avevano un istinto famelico. Un branco di fagociti che voleva riprendersi la propria vita. Non capivo più nulla. I miei occhi guardavano quella scena. Ed erano impotenti. Una piccola lucertola – in particolare – teneva nella zampa anteriore destra un paio di forbici. Forbici lunghe e affilate. Voleva sezionare qualcuno. Ne ero sicuro. Ma chi? In tutto quel caos non mi ero accorto che lo scrittoio di Norman – che vedevo con i miei stessi occhi dentro quel microscopio degli orrori – era pieno di fogli. Di piccoli fogli a quadri. Come se questi coprissero qualcosa che stava sotto. Coprivano una massa. Una piccola massa ricoperta da tanti piccoli fogli a quadri senza disegni. Assolutamente vuoti. Ma chi c’era lì sotto? Ormai la piccola lucertola si stava avvicinando al piccolo scrittoio. Al piccolo scrittoio di Norman. E allora capii. E gridai con tutto il fiato che avessi in gola. Strozzando la paura di quella scena che non poteva essere vera. Vera come io la stavo vedendo e vivendo. Gridai il nome di mio figlio. “Norman!… Norman!!…. Norman!!!… Svegliati Norman!!!!”. E continuai fino a quando non ebbi più fiato in gola. Pensando di morire vedendolo morire. Sezionato dalla vendetta di quel rettile. Divorato dalla sua stessa curiosità. Fino a quando quella piccola massa – sotto quei piccoli fogli – si mosse. E bruscamente si alzò. Come si fosse risvegliata da un brutto sogno. Come fosse ritornata in vita. Era lui. Il mio Norman. Ed era vivo!!! Quasi per ubbidire a un ordine superiore – un ordine che veniva dall’alto – tutti ritornarono al loro posto. Tutti i piccoli rettili. Le larve. I vermi. Tutti ritornarono sui loro piccoli fogli a quadri. E ripresero il loro posto. Il loro posto nel mondo di Norman. Norman era vivo. Teneva stretto nella sua mano sinistra la piccola lucertola. Nella destra aveva un paio di forbici. Forbici lunghe e affilate. Sì. Norman era vivo. E io l’avevo ritrovato. Dentro il suo microscopio. Dentro la sua vita.

Quando distolsi i miei occhi dal microscopio ottico ero davvero stanco. Stanco come spesso lo sono la sera. Da quando mia moglie è andata via. Da quando ho perso mio figlio. Certo ora so che è vivo. Dentro la sua testa. Forse dentro la mia. Ma ho trovato il tassello che mancava. Ho trovato la mia verità. Una verità nascosta. E poi – ora che mi guardo intorno – non sono più solo. C’è una figura alla mia destra. E un’altra alla mia sinistra. E altre dietro. A guardarli bene nessuno di loro ha un’espressione. Dico, un’espressione qualsiasi. Hanno un viso che non ti vede e una faccia che non ricorderai. Tutti con il loro camice bianco. Lindo. Asettico. Tutti con il loro paio di ali trasparenti. Sulle spalle. Se gli angeli esistono davvero allora questi devono essere i miei. Poi uno di loro si avvicina a me. Con dolcezza. E comprensione. Dalla sua faccia quasi inespressiva lascia che un lungo sorriso attraversi la mia stanchezza. Mette una mano sulla mia spalla. E con tutto l’amore che questo mondo non ama mi dice “Tutto bene Mr. Ramsey?”.

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Pubblicato da ilgirodelmondoconunlibro

Mi chiamo Rita Massaro. Sono una persona curiosa. Mi piace scoprire gli innumerevoli volti del mondo e le infinite possibilità della vita. Per questo leggo e viaggio. Ogni tanto le mie perlustrazioni scatenano la mia immaginazione. E scrivo. Ho pubblicato nel 2011, con la Casa Editrice Absolutely Free, un romanzo di formazione dal titolo "L'estate è finita". Nel dicembre 2016 è stato pubblicato il mio secondo romanzo, "Sotto il cielo di Santiago", con la Casa Editrice Genesis Publishing. Nel 2018 "Prima che sia primavera" con Il Seme Bianco, pubblicato in seconda edizione con il titolo "La terra del lungo inverno" con Emersioni. Ho partecipato a vari progetti di scrittura collettiva, tutti pubblicati nel 2020: "La villa delle ombre", con Stefania Agnello e Maurizio Bono; "Non ho forza per arrendermi", con Letizia Lo Cascio; "A casa: Diario di una pandemia" con Monica Spatola. Potete contattarmi su Facebook al seguente link: https://www.facebook.com/ilgirodelmondoconunlibroinmano