I migliori anni della nostra vita (Les plus belles année d’une vie, Francia, 2019) di Claude Lelouch con Anouk Aimée, Jean-Louis Trintignant, Souad Amidou. Antoine Sire, Marianne Denicourt, Monica Bellucci
Con William Wyler non c’entra niente, e tantomeno con Renato Zero (ci vorrebbe una commissione di sorveglianza sui titoli italiani…). Il nuovo lavoro del quasi ottantaduenne Lelouch altro non è che il seguito del suo Un uomo, una donna del 1966 (il secondo, dato che nel 1986 realizzò pure Un uomo, una donna oggi). Saccheggiando il prototipo (soprattutto tramite numerosi spezzoni), il regista parigino fa rincontrare Anne (Aimée), carriera cinematografica – nel reparto tecnico – alle spalle, e Jean-Louis (Trintignant), indomito pilota di rally ricoverato in una casa di riposo e affetto da amnesia (selettiva). È il figlio di quest’ultimo, Antoine (Sire), a rintracciare l’ormai anziana signora – ritrovando inoltre la figlia con cui giocava da bambino, Françoise (Amidou) – e a chiederle di far visita al malandato genitore. Segue una ridda di ricordi, riguardanti una passione temporanea e travolgente da “una volta nella vita”, astutamente mescolati a fantasia e addirittura sogno, a caccia più della bella immagine e di una sotterranea, sorniona ironia (complice la sorridente dottoressa Denicourt) che dei facili effetti da mélo (eccettuata la partecipazione dell’“illegittima” Bellucci). Una celebrazione dell’esistenza che continua, malgrado tutto, anche attraverso la discendenza. L’autore si serve persino di un suo antico cortometraggio, C’était un rendez-vous, lanciato a gran velocità per le strade della capitale francese.
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