COLONIA (id., Germania/Lussemburgo/Francia, 2015) di Florian Gallenberger con Emma Watson, Daniel Brühl, Michael Nyqvist, Richenda Carey, Vicky Krieps, Julian Ovenden
Sullo sfondo, oltre al sanguinoso golpe del 1973 in Cile con il quale il dittatore Pinochet spodestò il presidente democraticamente eletto Allende, c’è un vero luogo di dolore, Colonia Dignidad, ufficialmente una sede di ritiro spirituale, che non solo celava una setta cristiana rigidamente integralista guidata dal maniacale tedesco Paul Schäfer detto Pius (qui interpretato con poca misura dallo svedese Nyqvist di Uomini che odiano le donne), ma era pure la sede segreta di torture e interrogatori riservati agli oppositori del regime, o anche solo ai sospetti, non importa se stranieri. Un posto isolato dove pare abbiano trovato riparo perfino degli ex-gerarchi nazisti. Il merito del film di Gallenberger, un thriller che in generale non si innalza al di sopra della media, sta appunto nel riportare alla luce torti, pene, infamità, collusioni consumatisi durante un periodo oscurantista per il Sud America, un sottotesto preponderante veicolato dal quasi verosimile plot che vede la coraggiosa hostess Lena (la validissima Watson, ormai affrancatasi dall’Hermione che l’ha resa celebre) cercare accoglienza all’interno della comunità, nella speranza che lì sia rinchiuso il suo Daniel (Brühl, meno in forma del solito), fotografo attivista (proveniente a sua volta dalla Germania) arrestato, picchiato e sparito nel nulla. In pratica, un’opera forse migliorabile, ma già onorevole e provvista di un’indignazione retroattiva importante.
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