Questo è un libro che non si legge per il piacere di leggere. È un libro doloroso, forte, a tratti un vero pugno nello stomaco. La storia prende il via dalla morte per annegamento in circostanze misteriose di Amalia, madre di Delia, l’io narrante. Trattasi di suicidio, incidente o qualcos’altro? La protagonista torna a Napoli, città della madre e della propria infanzia, città dalla quale si è allontanata molti anni prima, non solo per conquistare una propria indipendenza ma anche e soprattutto, come si vedrà dal dipanarsi dei ricordi, per frapporre una distanza, una separazione netta da eventi drammatici che hanno caratterizzato quelli che dovevano essere gli anni della sua spensieratezza.
Dunque torna ai luoghi, ai suoni, ai sapori, alle voci di una Napoli che non è certo quella da cartolina, una metropoli che con tutte le sue profonde contraddizioni diventa protagonista del racconto al punto che, a volte, si ha quasi la sensazione di sentirne il respiro, il richiamo, il cuore che batte. Delia apparentemente è lì per cercare di far luce sulla scomparsa della madre, ma in realtà farà luce su una parte della propria esistenza e del proprio vissuto che ha invano tentato di cancellare, e che invece si porta addosso come la propria pelle o come la somiglianza a quella madre che ha tanto amato e al tempo stesso cercato di rinnegare.
In questo romanzo niente è come sembra. In apparenza un thriller, in realtà un romanzo psicologico che scava nella mente della protagonista ma soprattutto analizza in maniera spietata e in tutta la sua profondità e crudezza sentimenti ed emozioni che appartengono a tutti noi e in cui chi legge non può, a tratti, non riconoscersi. I ricordi dell’infanzia, il rapporto con i genitori, l’ambiente in cui si è cresciuti, i risvolti non sempre facili e, a volte contraddittori, che accompagnano ciò che sentiamo per le persone che maggiormente caratterizzano la nostra esistenza.
A mio avviso, il vero protagonista è proprio l’amore, che qui però assume una duplice valenza. Quello sano, naturale, altruista che possiamo scorgere vagamente nella madre di Delia, Amalia. E, poi, c’è quello del titolo… l’amore molesto. L’amore che non si preoccupa del bene dell’amato, l’amore egoista, l’amore che diventa possesso, l’amore che vuole conquistare il corpo, ma soprattutto la mente, i pensieri dell’altro, l’amore che non accetta il diverso da sé e, per questo, lo annulla e lo mortifica, facendolo sentire in colpa per il semplice fatto di essere così com’è. Questo amore non è amore, è violenza, è sopraffazione, è annichilimento dell’altro, probabilmente per insoddisfazione di sé. È un voler ricoprire di fiori un coltello. E quel coltello non è puntato solo contro le donne, spesso le prime vittime di simili sentimenti, ma sempre e comunque contro qualcuno (come può essere un bambino, ma non solo) che è più debole o si trova in una fase di fragilità psicologica in cui non riconosce un amore molesto e lo subisce, portandone le cicatrici per il resto della vita.
Purtroppo è questo amore, che tale non è, che ha la parte preponderante in questa storia. Seppure il potere salvifico dell’altro amore (quello della e per la madre) sembra alla fine riscattare la protagonista e riportarla, pur nel dolore, alla vita.
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